19Apr2025

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Storia di Gela

Ippocrate , Tiranno di Gela

Ippocrate, fratello di Cleandro, fu un importante tiranno della città siciliana di Gela nel V secolo a.C. Sebbene meno noto rispetto al più famoso medico omonimo, questo Ippocrate fu una figura di rilievo nella politica e nelle guerre siciliane dell’epoca.

Ippocrate proveniva da una famiglia aristocratica di Gela, una delle principali colonie greche in Sicilia. Suo fratello Cleandro fu tiranno della città, e alla sua morte, intorno al 498 a.C., Ippocrate gli succedette al potere.

Il suo regno è collocato in un periodo turbolento, caratterizzato da lotte tra le varie città greche di Sicilia, come Siracusa, Agrigento e Messina, e dalle incursioni delle popolazioni autoctone dell’isola, come i Siculi e i Sicani.

Ippocrate fu un leader aggressivo e ambizioso, che perseguì una politica espansionistica per estendere il controllo di Gela su gran parte della Sicilia orientale. Sotto il suo governo, Gela divenne una potenza regionale e fu coinvolta in numerosi conflitti. Egli riuscì a conquistare diverse città vicine, tra cui Leontini, Nasso e Zancle (l’odierna Messina), che divenne una delle sue conquiste più importanti.

Si dice che Ippocrate avesse cercato anche di attaccare Siracusa, ma la sua avanzata fu fermata dall’intervento di Corinto e Corcira (l’odierna Corfù), che proteggevano Siracusa per ragioni politiche e commerciali. Nonostante ciò, Ippocrate riuscì a ottenere un’indennità e il controllo su alcune città minori della Sicilia orientale.

Ippocrate morì intorno al 491 a.C., durante una campagna militare contro i Siculi. La sua morte segnò una fase di transizione per Gela. Come detto, fu seguito da Gelone, che riuscì a mantenere il controllo della città e successivamente a conquistare Siracusa, consolidando così il dominio siceliota greco nella regione.

Anche se meno ricordato rispetto ad altri tiranni siciliani, Ippocrate svolse un ruolo cruciale nello sviluppo politico della Sicilia greca, trasformando Gela in una delle città più influenti dell’isola e aprendo la strada all’espansione di Siracusa sotto il governo di Gelone.

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Storia di Gela

Cleandro , Tiranno di Gela

Cleandro Patareo e’ stato il primo tiranno di Gela di Cleandro sappiamo innanzitutto che era figlio di Pantare. Non è invece chiaro come sia assurto al potere. Da erodoto sappiamo che la città era afflitta da una stasis, un rivolgimento intestino, in conseguenza del quale una delle fazioni in città si sarebbe rifugiata in un centro siculo, maktorion. Pare che in questi sviluppi un ruolo di rilievo abbia avuto teline, un antenato di gelone. Sembra che Teline riportasse in patria la propria fazione, rivendicando per sé e per i propri discendenti la funzione di ierofante di demetra e kore. Se tale stasis sia da attribuire alla composizione etnica dei fondatori di Gela (in parte rodii e in parte cretesi), la vicenda di Teline va allora collocata in prossimità della fondazione della città, in analogia con quanto accaduto ad akragas con falaride. È anche possibile che l’intera storia sia un’invenzione posteriore, tesa a legittimare l’operato successivo di Gelone.

Sia come sia, Cleandro conquista il potere tra il 505 e il 504 A.C Aristotele (Politica, 5, 12, 1316a) associa Cleandro a Panezio di Lentini entrambi sono aristocratici che divergono dai propri interessi di classe. Il passo aristotelico rinvia all’esistenza di un regime oligarchico precedente la tirannia di Cleandro. L’origine aristocratica di Cleandro sembra confermata da una placca di bronzo (che dovette servire da basamento per una statuetta, probabilmente di soggetto equestre). Tale placca, rinvenuta a Olimpia, contiene una dedica, che recita: “Pantare di Gela, figlio di Menecrate”: è assai probabile che tale Pantare sia il padre di Cleandro.

Aristotele, abbastanza informato delle vicende siciliano associa Cleandro a Panezio di Lentini, identificandoli come aristocratici che divergono dai propri interessi di classe, in che implica, come in molte altre polis siciliane, l’esistenza di un regime oligarchico antecendente la sua tirannia. La testimonianza di Aristotele sembra confermata da una placca di bronzo, che dovette servire da basamento per una statuetta, probabilmente di soggetto equestre.

Tale placca, rinvenuta a Olimpia, contiene una dedica, che recita: “Pantare di Gela, figlio di Menecrate”: è assai probabile che tale Pantare sia il padre di Cleandro, citato da Erodoto. La dedica, databile alla settantottesima olimpiade (512-508 a.C.), intende ricordare una vittoria olimpica alla quadriga e rinvia ad una famiglia aristocratica, dedita all’allevamento di cavalli (e la Piana di Gela, assieme a quelle di Gela era ai tempi una delle migliori zone per questa attività, tant’è che le prime monete coniate di questa polis raffiguravano un cavaliere nudo in groppa ad un cavallo). Il dato pare riscontrare un precoce interesse della nobiltà isolana alla partecipazione ai giochi panellenici, certamente in un’ottica di prestigio e autorappresentazione. Pantare è il primo magnate siceliota di cui siamo a conoscenza che abbia partecipato alla quadriga.

La tradizione indica in sette anni la durata della permanenza di Cleandro al potere, il quale viene poi ucciso nell’ambito di una congiura, probabilmente orchestrata dall’elemento aristocratico, nel 498 o 497 a.C. Ma il moto restauratore non ebbe successo, perché il posto di Cleandro viene preso dal fratello Ippocrate.

Quando anche Ippocrate, dopo aver regnato tanti anni quanti suo fratello Cleandro, morì presso la città di Ibla, in una guerra da lui intrapresa contro i Siculi, ecco allora che Gelone finse di soccorrere i figli di Ippocrate Euclide e Cleandro, giacché i cittadini non volevano più essere loro soggetti, ma in realtà, sbaragliati in battaglia i cittadini di Gela, strappò ai figli di Ippocrate il potere e lo detenne personalmente.

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Storia di Gela

Gelone, Tiranno di Gela

Gelóne in latino Gelo (Gela, 540 a.C. – Siracusa, 478 a.C.) fu tiranno di Gela dal 491 o 490 a.C. e primo tiranno di Siracusa dal 485 o 484 a.C. fino alla morte.

Figlio di Dinomene, Gelone fu il figlio maggiore di Dinomene.

I suoi fratelli erano Ierone, che sarebbe divenuto sovrano di Gela prima e di Siracusa dopo la morte di Gelone; Polizelo, futuro signore di Gela al posto di Ierone, e Trasibulo, succeduto a Ierone nel ruolo di tiranno di Siracusa. Gelone, secondo la tradizione, apparteneva ad una illustre famiglia, che aveva contribuito alla fondazione della città e deteneva per diritto ereditario la ierofantia degli dèi degli inferi . Fu sposato con Damarete , figlia di Terone di Agrigento.

Sembrerebbe che Damarete, dopo la vittoria di suo marito, Gelone nel 480 a.C., suggerì, nelle clausole del trattato di pace, il divieto di effettuare sacrifici umani nei riti cartaginesi. Una notizia trionfalistica per Gelone che lo avrebbe etichettato come il garante sul diritto alla vita.

Ma in realtà, la presunta tradizione dei sacrifici umani, attuati dai cartaginesi, è tutt’oggi dubbia, infatti da un esame dei resti dei neonati nei luoghi sacri, detti tofet, gli archeologi hanno verificato che molti bambini erano deceduti durante la gravidanza, senza che si deducessero segni di morte cruenta.

Secondo Erodoto, a fondare Gela, insieme ad Antifemo, sarebbe stato un avo di Gelone, originario dell’isola di Telos. Questi sarebbe stato Teline, sacerdote di Demetra e Kore, tra i rifugiati a Maktorion in occasione della stasis che, intorno alla metà del VI secolo a.C., agitò Gela, poco prima che si instaurasse nella polis la tirannia di Cleandro.

Gelone inizia ad affermarsi come collaboratore e guardia del corpo del tiranno Ippocrate (tiranno a Gela tra il 498 o 497 e il 491 o 490 a.C.), quando questi è impegnato a sottomettere dei congiurati aristocratici che si erano mossi contro la tirannide, innanzitutto uccidendo il fratello di Ippocrate e precedente tiranno, Cleandro (che aveva conquistato il potere tra il 505 e il 504 a.C.).

Gelone si mette ancora in mostra in occasione della campagna militare con cui Ippocrate riesce a impadronirsi di tutta la Sicilia orientale, tranne Siracusa, che rimane autonoma: per i meriti acquisiti in campo, Gelone è fatto ipparco (comandante della cavalleria) dal tiranno. Come ipparco, Gelone giocò un ruolo fondamentale nella vittoria di Ippocrate nella battaglia dell’Eloro del 492 a.C. insieme a Cromio di Etna figlio di Agesidamo. Le ultime fasi di Ippocrate vedono il tiranno impegnato ad abbattere sacche di resistenza degli indigeni siculi: Ippocrate riesce a prendere Ergezio con l’astuzia, ma durante l’assedio di Ibla (sito non ancora identificato) trova la morte (491 a.C.)

Il periodo successivo, cioè quello dei sei anni di tirannia di Gelone a Gela, è molto poco documentato: Gelone deve tenere testa all’instabilità provocata dalla sua ascesa eversiva, in particolare alla protesta dei mercenari di Ippocrate, insediatisi a Camarina, che gli rimproverano di aver liquidato la discendenza del precedente tiranno, ma alcuni magnati passano dalla parte di Gelone e questi, inoltre, opera con essi un’attenta politica matrimoniale.

Verosimilmente già in questi anni gelesi Gelone stringe alleanza con Terone, appartenente al ghenos degli Emmenidi. Questi diviene tiranno di Akragas tra il 488 e il 487 a.C. ed è anzi probabile che la sua ascesa sia stata favorita dallo stesso Gelone. Akragas e Siracusa sono politicamente assai legate a partire da questa fase e fino alla battaglia di Imera del 480 a.C. Tale alleanza viene anche suggellata dal matrimonio di Gelone con Demarete, figlia di Terone. È anche possibile che Gelone in questo periodo aiuti Terone contro Selinunte, che con Akragas ha un continuo conflitto per Minoa, subcolonia selinuntina nei pressi del fiume Alico.

Non è chiaro se Gelone imponga a Camarina il tiranno vicario Glauco di Caristo per contrastare la ribellione dei mercenari o per prevenirla. In ogni caso questi insorgono contro Glauco, che viene condannato a morte: per cinque anni Camarina mantiene la sua indipendenza che verrà meno solo quando Gelone si impianterà a Siracusa.

Le difficoltà di questa fase di transizione sono per Gela aggravate dall’iniziativa di Anassilao (o Anassila), tiranno di Reghion, il quale, intuìto qualche spazio di manovra, torna alle sue mire sullo Stretto di Messina, in passato arrestate da Ippocrate, e assalta per mare e per terra Zancle, dove Gelone aveva posto come tiranno vicario Cadmo di Cos, figlio di Scite. Lo scontro è attestato da una dedica posta su uno schiniere e su un elmo rinvenuti a Olimpia, in cui i Reggini si vantano di una vittoria sui Geloi. È forse in questo frangente che Anassilao rifonda Zancle con coloni di diversa origine, tra cui elementi messeni (e di origini messene era lo stesso Anassilao), motivo per cui Zancle viene ribattezzata Messana e diviene capitale del cosiddetto “regno dello Stretto”. Anassilao diviene ecista di Messana e molto probabilmente vi si trasferisce, lasciando Reghion al figlio Leofrone.

È possibile che sia proprio la perdita di Zancle a spingere Gelone a indirizzare le sue mire verso Siracusa

Il tiranno di Gela perde dunque il controllo sullo Stretto, ma questo non gli impedisce, come pare, di aiutare la Repubblica romana, sorta nel 509 a.C. con la cacciata dei Tarquini, la quale aveva fatto richiesta di grano. La notizia è riportata da Dionigi di Alicarnasso, il quale riferisce che il Senato romano, in occasione di una grave carestia, aveva deliberato di chiedere aiuto all’esterno (492 o 491 a.C.). Gli ambasciatori romani (P. Valerio e Lucio Geganio Macerino) svernano a Gela (come riporta Tito Livio) e poi tornano a Roma con ben 25.000 medimni di grano (circa 984 tonnellate di derrate alimentari[28]). Pare che Gelone non pretendesse alcun corrispettivo economico, considerando quel grano una semplice donazione (così Plutarco).

Non è chiaro se questo episodio vada riferito al periodo in cui Gelone esercitava la tirannia a Gela (come ritengono Braccesi e Millino) o a quando era già tiranno di Siracusa (come proposto da Freeman). In ogni caso, la scelta di aiutare Roma evidenzia la capacità di Gelone di muoversi sullo scacchiere internazionale, profittando, nel caso in questione, della ricca e proverbiale produzione cerealicola della Piana di Gela[30].

L’episodio, comunque, se confermato, rappresenta un importante precedente in chiave anti-etrusca della battaglia di Cuma (474 a.C.), che sarà vinta da Ierone, fratello e successore di Gelone.

Gelone morì nel 478 o nel 477 a.C : Plutarco (Moralia, 404) scrive che la causa del decesso fu l’idropisia. In breve la sua figura e il suo operato furono trasfigurati dal regime dinomenide, assumendo i contorni del mito, di modo che venne poi tradizionalmente considerato un tiranno moderato e giusto, esente dalle efferatezze sistematicamente attribuite a un Falaride: secondo le fonti, alla sua morte tutto il popolo siracusano partecipò ai funerali, per poi piangerlo a lungo anche dopo ed erigere a sue spese un mausoleo in suo ricordo, vicino al tempio di Zeus ai Pantanelli (anche se non resta nessuna traccia archeologica). Post mortem ebbe un culto da eroe.

Sebbene avesse un figlio (di cui non ci è pervenuto il nome), sembra che abbia posto le condizioni per una successione diarchica

Su quest’ultimo le cronache hanno lasciato molte notizie che consentono di ricostruirne la figura di un uomo pietoso e buono e le vicende più importanti , che segnarono il corso della sua vita , gia da quando , ancora bambino era sopravvissuto ad un terremoto uscendo dalla scuola per inseguire un lupo e fino al momento della sua morte , accolta con rammarico dal popolo siracusano , che partecipò in massa ai suoi funerali.

Dai Siracusani Gelone venne insignito del titolo onorifico di nuovo ecista.

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Storia di Gela

Scessio Plebis Di Gela

Intorno al 600 a.C., ci fù il primo caso di guerra civile accaduto nella storia occidentale. Questo caso si limitò
al solo ammutinamento delle classi povere che non godevano di alcun diritto politico. Il gruppo di emarginati,
sicuramente la maggioranza, che costituiva la classe lavorativa, abbandonò ad un certo punto la polis o città-stato e si
rifugiò a Maktorion, pochi chilometri a nord di Gela, lasciando inattiva l’economia della città.
Fu allora che Teline, antenato del tiranno Gelone, raggiunse i ribelli nel luogo in cui si erano auto-esiliati convincendoli
a ritornare alle loro case.
Si racconta che Teline spiegò l’ordinamento sociale della Polis metaforicamente, paragonandolo ad un ecosistema nel
quale, come in tutti gli insiemi costituiti da parti connesse tra loro, gli animali sopravvivono solo se collaborano e,
diversamente, periscono; conseguentemente, se le formiche (il popolo) si rifiutassero di lavorare, i lupi (gli
aristocratici) non riceverebbe cibo ma, in tal caso, ben presto tutto la foresta, alberi compresi, deperirebbe per
mancanza di nutrimento.

Come ricompensa per aver salvato la città, Teline fu insignito del sacerdozio di Demetra e Kore che, a sua detta, gli
avevano suggerito il modo migliore per prevenire una guerra civile. Il culto delle due dee da quel momento in poi si
diffuse a macchia d’olio in tutta la Sicilia, e Gela divenne centro propulsore delle iniziative religiose intraprese dal suo
capostipite e dai suoi discendenti (tra cui il tiranno Gelone).

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Angelo Famao

Angelo Famao nasce a Gela (CL), in Sicilia, il 23 aprile 1996, in una famiglia di umili origini, una condizione che lo spinge tutt’oggi a mantenere ben saldi i suoi valori basati su principi sani.

Crescendo nei vicoli del suo paese, Angelo sviluppa fin da piccolo una grande passione per la musica, dimostrando un’innata predisposizione per quest’arte.

All’età di 13 anni, il giovane inizia a lavorare presso un autolavaggio nel suo paese, attività che porta avanti per 5 anni. Grazie a questo impiego, ai sacrifici affrontati e al costante supporto morale dei suoi genitori, riesce a realizzare il suo sogno: debuttare nel mondo della musica, incidendo due album intitolati Tra sogno e realtà e La voce del cuore. Tuttavia, questi primi lavori non gli portano il successo sperato.

Nonostante le difficoltà, Angelo non si arrende e continua a inseguire il suo obiettivo. A 20 anni si trasferisce a Catania per proseguire il suo percorso musicale. Dopo molte delusioni e porte chiuse, incontra una figura cruciale per la sua vita e carriera: il maestro Mario Parise. Questi, credendo nel talento del giovane, diventa il suo produttore discografico insieme a Nino Marchi, cantautore e socio del maestro Parise. Così, Angelo entra a far parte della casa discografica Bluemusic.

Il 2018 segna per Angelo il primo grande successo con il brano Tu si’ a fine do’ munno, che supera le 70 milioni di visualizzazioni su YouTube. Questo singolo gli vale anche il primato come unico cantante neomelodico ad aver ricevuto un disco d’oro.

Nonostante il successo, Angelo è rimasto fedele alla sua autenticità e umiltà. Non ha mai dimenticato le sue origini e i sacrifici che lo hanno portato a diventare un artista molto richiesto. Angelo attribuisce grande valore alla determinazione, all’ambizione e alla capacità di sacrificarsi, continuando a dedicarsi alla musica con nuovi brani.

Le parole che meglio rappresentano la sua filosofia di vita e carriera sono racchiuse in una frase motivazionale che è diventata il suo motto quotidiano. Angelo la ripete a se stesso e la condivide per incoraggiare gli altri a non arrendersi:
«Non c’è alcun successo senza sacrificio. Dobbiamo affrontare ogni impresa con entusiasmo, impegno e dedizione. Bisogna chiedere, certo, ma sempre pronti a dare più di quanto riceviamo».

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Gelesi D'autore

HolyFrancisco

Nato e cresciuto a Gela con la passione della musica, e
già nel 2022 comincia a muovere i primi passi nel
mondo della televisione partecipando ad xFactor con il
brano ”Martina” facendosi apprezzare dal pubblico con
le sue simpatiche canzoni che raccontano la vita
quotidiana di un adoloscente. Successivamente nel
2023 arriva sul palco di ” Amici di Maria de Filippi”
,dopo la presentazione da parte di Maria De Filippi,
Holy Francisco si è esibito con l’inedito Tananai. Il
brano ha convinto Anna Pettinelli che ha sottolineato
come la risposta del pubblico sia solo il primo passo
all’interno della trasmissione. Nel suo percorso Holy ha
superato con fatica diverse prove a cui è stato
sottoposto, tra cui molte sfide e maglia sospesa dalla
sua insegnante, ripresa ma comunque in bilico. Anna
ha poi scelto di eliminarlo a seguito ad alcuni episodi.
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Gelesi D'autore

Lino Incorvaia

Come di consueto, per la rubrica ‘’Gelesi Che Si Sono Distinti’’ torniamo ad occuparci dell’esperienza lavorativa di un nostro concittadino al festival di Sanremo, importante kermesse canora tramessa in mondo visione su Raiuno.

Si tratta di Lino Incorvaia, parrucchiere, truccatore ed onicotecnico, professionista della ricostruzione ed applicazione di unghie artificiali che anche per questa edizione del festival giunto alla sua 69° edizione ha curato “trucco e parrucco” di alcuni cantanti in gara.

A Gela gestisce con successo un salone tutto suo ed è molto apprezzato dalle sue tante clienti, che a quanto pare non sono molto contente quando si allontana da Gela, temendo di essere abbandonate per il mondo dello spettacolo, nel quale aspira di lavorare in maniera continuativa e non solo per occasioni speciali, come quella del festival della canzone italiana.

Ha curato il look del vincitore Mahmood con la canzone “Soldi”, del rapper Guè Pequeno che con lui si è esibito in un duetto, i Zen Circus e dei ballerini Tim, la casa discografica per la quale L’Accademia Area Stile di Milano ha prestato la sua opera e che ha contattato per l’ennesimo anno l’acconciatore gelese, entrato ormai a far parte del team di operatori del festival di Sanremo.

Inoltre , in questi anno ha continuato a curare il look dei cantanti piu noti del festival , infatti nel 2022 ha curato il look dei vincitori,Mahmood e Blanco

«Mi ha fatto uno strano effetto occuparmi del look di Alessandro (Mahmood) un mio vecchio e caro amico che ho conosciuto e frequentato nei tre anni che ho vissuto e lavorato a Milano, dal 2012 al 2015. A quei tempi muoveva i primi passi nel mondo della musica come rapper e rincontrarlo per una manifestazione di importanza nazionale a lavorare anche per lui mi ha fatto tanto piacere. Poi quando è stato decretato vincitore l’emozione è stata veramente forte».

«Ho vissuto momenti molto belli ed emozionanti, potendo usufruire di un pass che mi ha permesso di potermi muovere liberamente all’Ariston durante le prove dello spettacolo e di poter assistere alle interviste nella sala stampa. Ho lavorato in un clima molto rilassato, sentendomi a mio agio con i vari artisti, che nella cura del loro look hanno lasciato fare al mio estro. Ho conosciuto Claudio Baglioni, Claudio Bisio e la bellissima e Virginia Raffaele. Ma anche la simpaticissima Michelle Hunziker, poi Eros Ramazzotti ed Alessandra Moroso. Tutti molto bravi, professionali e pieni di fascino»

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Leggende di Gela

La Leggenda Della Femmina Nuda

Fino ai primi anni Cinquanta, sulla piazza principale di Gela troneggiava un busto marmoreo di Re Umberto I, realizzato con pregiato marmo di Carrara dallo scultore palermitano Antonio Ugo e inaugurato nel 1903 (nota: tre anni dopo l’assassinio del re; fu voluto allora da tutta la città). Nel 1952, il busto del Re fu sostituito da una statua bronzea di una donna nuda, raffigurante Demetra, dea della mitologia greca. Quest’opera, creata dallo scultore bagherese Silvestre Cuffaro, fu commissionata dalla Regione Siciliana e donata al compianto On.le Salvatore Aldisio, che pensò bene di regalare la statua alla sua città natale, sebbene non sapesse esattamente cosa rappresentasse.

Il giorno dell’inaugurazione, la piazza si riempì di autorità civili, militari e religiose, insieme a una folla copiosa che occupava ogni angolo disponibile, inclusa la gradinata e il sagrato dell’antistante chiesa Madre. La statua, avvolta in un misterioso contenitore, stava per essere svelata. Per descrivere ciò che accadde durante quel momento, lasciamo parlare le parole di Curtis Bill Pepper, un giornalista e scrittore americano presente alla cerimonia. Egli scrisse un articolo intitolato “It happened in Italy” (E’ accaduto in Italia), di cui sintetizziamo il testo.

<<Nel momento solenne dello scoprimento, contrariamente a quanto di solito accade, non ci furono né grida di gioia né applausi, ma un silenzio tombale calò tremendo sulla piazza. La folla, incredula e ammutolita, assistette all’apparizione della statua di una donna completamente nuda, con un drappo che modestamente avvolgeva il bacino nella parte più intima: a Gela “nulla di simile si era mai visto”. Dopo l’iniziale smarrimento, cominciarono a levarsi delle grida: una donna esclamò: “…ma è completamente nuda!”, mentre un’altra si affrettò a dire: “…non fate guardare i bambini!”.>>

L’allora parroco della Matrice, Mons. Gioacchino Federico, ripresosi dallo sgomento, non poté fare a meno di urlare: “Bruciatela!… È un insulto continuo di fronte alla chiesa, una tentazione diavolesca per i giovani che vengono tentati prima del loro tempo”. Intanto, mentre “gli amanti dell’arte” e i “moralisti scioccati” dibattevano sul da farsi – togliere o lasciare “la donna nuda” in piazza – alcuni volenterosi cercarono di porre rimedio a quella “vergogna” coprendo la statua con della stoffa. Ma il rimedio risultò peggiore del male: quel drappo la rese persino più sexy di quanto non fosse già.

Nonostante la contrarietà del parroco e di molte altre persone, si decise di lasciare la statua nuda in piazza. Tuttavia, nella prima decade di settembre di quell’anno, fu tolta dal suo piedistallo in occasione dei festeggiamenti della Patrona di Gela, alla presenza del vescovo della diocesi. E così, la leggenda della femmina nuda continuò a vivere nei racconti della gente, un mistero avvolto nella polvere del tempo e nella memoria collettiva della città.

 

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Leggende di Gela

La Leggenda Del Mostro Del Lago Biviere

Tra le tante creature straordinarie che popolano il Lago Biviere di Gela, si narra che le acque del Lago fossero frequentate da una presenza inquietante: un gigantesco serpente le cui sembianze ricorderebbero un rettile estinto del Paleocene.

Un giorno, durante una battuta di caccia, due uomini appostati tra i canneti delle sponde del Biviere in attesa che le folaghe si levassero in volo, videro spuntare improvvisamente un grosso rettile tutto ricoperto di scaglie, dalla testa alla coda, era la “biddina”, un mostruoso rettile dalla circonferenza di un “vuttazzeddu di una sarma di vino” e dalle dimensioni titaniche ricoperta da squame corazzate e occhi rossi che ipnotizzavano e terrorizzavano i passanti, mietendo numerose vittime.

Il mostro che arrivava dalla terraferma si dirigeva spedito verso di loro così che i due cacciatori, paralizzati dalla paura attesero l’entrata in acqua della bestia e scapparono a gambe levate verso il paese gridando “ a biddina scappau “.

Nei giorni a seguire, un gruppo di impavidi , avvistata ” a biddina ” in contrada S. Giuliano, in territorio di Mazzarino ai confini con Butera, riuscirono a tramortire il rettile leggendario colpendolo a morte con un solo proiettile sparato in bocca, unica parte del corpo non protetta dalle scaglie magiche.

La leggenda vuole che una biscia che rimanga nascosta per sette anni si tramuta in “biddrina”, diventando gigantesca come per magia. Questa serpe ammaliatrice vive nascosta presso le fonti e le paludi e riesce ad attirare i malcapitati che passino da quei luoghi incantandoli con lo sguardo.

L’invenzione di questa creatura rispondeva probabilmente all’esigenza di evitare che i bambini andassero a fare il bagno in questi laghetti paludosi col pericolo di annegarvi. La sua evocazione, infatti, è sempre stata lo spauracchio dei bambini.

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Leggende di Gela

La Leggenda Del Manfrino

Al tempo in cui venne costruito era un magnifico gioiello di architettura fiabesca, incastonato in una meravigliosa e verde cornice di boschetti rigogliosi – digradanti dolcemente verso la Piana – che limpidi e mormoranti ruscelli attraversavano leggeri come una carezza, rendendo sempre fresca e tenera l’erba punteggiata di fiori profumati.

Il castello apparteneva alla nobile, ricca e potente famiglia “Manfrina”, signora di quel vasto e fertile feudo che da essa prese il nome di Manfria e che vi abitò per diverse generazioni fino agli ultimi due superstiti, Manfrino e la sorella Manfrina, con questi abitava la dama “Provenza” dei conti Montalbano.

La sera di un lontano dicembre egli diede una festa in onore della sorella. Purtroppo, era destino che quella festa avrebbe segnato la fine della famiglia Manfrina.

a dama Provenza, agitata da strani presentimenti, ne fece partecipe lo stesso Manfrino, il quale la rassicurò che niente di male sarebbe accaduto, poiché i cavalieri invitati rappresentavano l’espressione più alta dei casati nobiliari isolani, il cui rigido codice d’onore era universalmente ed indiscutibilmente accettato.

“Calmati, Provenza”, le disse Manfrino, “non devi preoccuparti di alcunché! Questi cavalieri non tradiranno l’ospitalità!”. Ed aggiunse: “ ricordati che Manfrino non teme rivali che possano reggere alla sua spada ed alla sua forza!”.

La dama Provenza, che con apprensione partecipava al banchetto, venne colpita dalla straordinaria bellezza di un cavaliere, il signore Morgantina, la cui presenza la fece sognare ad occhi aperti, liberandola dall’incubo di quei sogni premonitori.

Mentre Manfrino si intratteneva in un’altra sala, la bellissima Manfrina, ignara di quanto veniva ordito a suo danno dai cavalieri, che ne avevano già deciso il rapimento.

Nel momento culminante della serata, i cavalieri si scagliarono con le armi in pugno sulla servitù, massacrando quanti cercavano di difendere la fanciulla.

Fu un susseguirsi di urla, di lamenti angosciosi e di imprecazioni terribili.

“Tradimento!…, Tradimento!…” – si mise a gridare la dama Provenza, col cuore in gola.

Richiamato dalle grida Manfrino piombò come un fulmine e si mise a menar chiunque si trovasse a tiro. I traditori, avuta la peggio, non trovarono di meglio che fuggire precipitosamente dal castello, inseguiti dal gigante che aveva intanto impugnato la spada e cavalcato il suo destriero.

La dama Provenza, che nel frattempo si era armata di una grossa mazza, si univa a lui e riusciva a stendere per terra contemporaneamente sette cavalieri ad ogni colpo.

Ma i fuggiaschi, non appena si riebbero dallo stordimento, non rassegnandosi all’umiliazione subita e consapevoli della loro superiorità numerica, decisero di affrontarlo con tutto l’impeto di cui erano capaci e gli tesero un mortale agguato.

Non appena gli furono di fronte ne colpirono l’aggressivo e focoso cavallo che, in un supremo sforzo di tensione, impresse con violenza il proprio zoccolo sulla nuda roccia calcarea, lasciandovi la viva e gigantesca impronta seguita dal possente piede del cadente Manfrino suggellando con l’orma del suo piede la stessa roccia.. “l’impronta è ancor oggi visibile e reale“

Immediatamente dopo si scagliarono su Manfrino, che, colpito in più parti del corpo, veniva preso ed incatenato, per poi abbandonarlo agonizzante. La dama Provenza, mentre si chinava sul corpo del cavaliere di Morgantina per baciarlo, veniva colpita a morte dall’infame e finto morto col pugnale nella parte fatale del corpo.

Manfrino, malgrado le mortali ferite, riusciva ad arrampicarsi sulle rocce e a portarsi dentro il castello. Qui trovava la sorella senza vita in un lago di sangue, mentre i malfattori cercavano di trascinare fuori i pesanti forzieri contenenti gli immensi tesori accumulati da secoli dalla famiglia Manfrina.

Il gigante allora, rivolgendosi al cielo, ne chiese l’intervento, pronunciando misteriose e struggenti parole dal cui incantesimo si creò un vortice pauroso che risucchiò uomini e cose facendoli sprofondare nelle viscere della terra.